domenica 27 settembre 2009

Ciao Patrick!



Point Break - Punto di rottura è un film del 1991, diretto da Kathryn Bigelow, interpretato da Keanu Reeves e Patrick Swayze. Il titolo si riferisce ad un termine del gergo surfistico ed è forse uno dei film degli anni 90 che ha avuto più successo e ha condizionato cinema e tv da quel momento. Stessa sorte toccò nel 1978 a Un mercoledì da leoni, diretto da John Milius, dedicato anch'esso al mondo del surf. Gary Busey, uno dei protagonisti, dovette imparare a surfare prima che iniziassero le riprese. 13 anni più tardi, nel film Point Break, Busey impersonera' l'agente dell'FBI Angelo Pappas, che spinge il suo collaboratore Johnny Utah (Keanu Reeves) ad imparare il surf per dare la caccia ad una banda di svaligiatori.

La città della gioia (City of Joy) è un film del 1992, diretto da Roland Joffé (già regista di Mission del 1986), tratto dall'omonimo romanzo di Dominique Lapierre ed è ambientato nel crudo scenario di Calcutta. Protagonista è Patrick Swayze, nel ruolo di un medico statunitense che rimane scioccato dopo la morte di una ragazzina durante un suo intervento. Decide quindi di mollare il suo mestiere e di andare a fare un viaggio in India.



Due pellicole diversissime ma che cercano entrambe di farci compiere un viaggio dentro noi stessi, per capirci un po' di più e forse, grazie a questo, essere finalmente felici.

Ciao Patrick.
E per questi due film, come per Ghost e Dirty Dancing, grazie.
T.

sabato 26 settembre 2009

PELHAM 123:OSTAGGI IN METROPOLITANA

Terzo adattamento cinematografico del romanzo Il colpo della metropolitana,questa volta alla regìa c'è Tony Scott.Dietro al dirottamento di un treno nel sottosuolo di New York si rivedono le paure sorte dopo l'11 settembre 2001,guerra,terrorismo,crisi economica.
Denzel Washington(Garber) e John Travolta(Ryder),un addetto al centro di smistamento dei treni e un sequestratore disposto a tutto,un uomo che perseguita la giustizia forse per redimersi e un altro che crede di essere nel giusto.
Garber è un pezzo grosso alla metropolitana di New York in attesa di giudizio dopo le accuse di corruzione,provvisoriamente al centro dello smistamento dei treni:il destino lo mette di fronte a Ryder,un ex agente di borsa di Wall Street finito in prigione e cervello di un gruppo di sequestratori decisi ad ottenere 10 milioni di dollari per la liberazione dei 19 ostaggi catapultati loro malgrado in questo clima di violenza e morte.
Il film è un buon thriller ricco di tensione,arricchito dall'interpretazione di personaggi come John Turturro nei panni di un negoziatore,e James Gandolfini in quelli del sindaco,peccatore(adulterio) come i due protagonisti.
Ottimi anche i dialoghi che mettono a confronto Ryder e Garber:il primo mette alla prova il secondo fino a lasciarlo "nudo" di fronte alle sue colpe e alle sue paure. un incontro che ha segnato la vita di entrambi.
Appuntamento davanti allo schermo...



G.

martedì 22 settembre 2009

un giorno senza la notte e una notte senza il giorno: LadyHawke



Una delle più belle favole mai raccontate su di uno schermo (insieme a La Storia fantastica di Rob Reiner e a Willow di Ron Howard).
Diretto da Richard Donner, regista di film come Arma Letale e I Goonies, girato quasi interamente in Italia, con attori in stato di grazia come Matthew Broderick, Rutger Hauer e Michelle Pfeiffer.
Le favole, quelle belle, non stancano mai, sera dopo sera.
T.

domenica 20 settembre 2009

Sfida senza Regole



Da grandi aspettative derivano grandi delusioni. Parafrasando l’Uomo Ragno di Sam Raimi, si può commentare così questo lavoro del regista statunitense Jon Avnet, giustamente apprezzato per i suoi Pomodori verdi fritti alla fermata del treno del 1991 ma in questo caso colpevole, non l’unico certamente, di aver sprecato una occasione rara e per questo potenzialmente indimenticabile. La possibilità di poter dirigere due attori leggendari come Al Pacino e Robert De Niro è un onore ma sicuramente anche una grande responsabilità, poterlo fare per lo stesso lungometraggio, nella stessa inquadratura, è una indimenticabile delusione, se ciò che si ottiene è questo Sfida senza regole (Righteous Kill).
A 34 anni da Il padrino - Parte II, dove Francis Ford Coppola non poté mai farli recitare assieme nella stessa scena, a causa delle differenti linee temporali che seguivano le loro avventure criminali, e a 14 anni da Heat - La sfida, dove invece Michael Mann riuscì a confezionare un appassionante poliziesco, con un De Niro ladro incallito e un Al Pacino poliziotto implacabile, anche se, su quasi 3 ore di pellicola, i minuti di faccia a faccia sono veramente pochi ma forse per questo ancora più memorabili, arriva l’attesissimo terzo incontro fra queste due icone del cinema d’oltreoceano e la delusione è subito cocente.
Qui i nostri eroi recitano assieme in gran parte delle scene, si sorreggono e si superano senza decretare un vincitore, ma questo sta solo a dimostrare ancora un volta, se ce ne fosse davvero bisogno, la loro bravura recitativa ed interpretativa. I problemi nascono proprio da questo: i due grandi attori danno prova di un mestiere, frutto di decenni di lavoro senza pause, che per loro non ha più segreti e che riescono a piegare secondo le esigenze del momento. Troppo, tanto da dare l’impressione di un gioco a due, fra loro due soli, fatto di battute, sguardi e dialoghi che potrebbero benissimo stare in un corso di perfezionamento per aspiranti attori. Ma è tutto il resto che manca, purtroppo. Perché se vedere questi due quasi settantenni al lavoro è una delizia per gli occhi, certo non può nascondere, al pubblico in sala o sdraiato sul divano di casa, le troppe falle, intoppi e, diciamola tutta, la palese inadeguatezza di questa sceneggiatura. È ed un vero peccato, visto che la firma Russell Gewirtz, geniale mente dietro il meccanismo di Inside Man, film del 2006, diretto da Spike Lee.
La trama è abbastanza scontata e già vista in decine di film, due poliziotti, in coppia da una vita, diversi eppure complementari, si trovano a dover affrontare, quasi alla fine della loro carriera, un serial killer poeta, ch sembra accanirsi solo con i peggiori elementi di una New York che cerca malamente, in vari momenti, di assomigliare alla Città disperata e senza speranza di Seven. E se si cerca di dare una svolta al film con un finale degno di David Fincher, appunto, o alla I soliti sospetti, e il risultato che si ottiene è scontato e tristemente prevedibile, allora si può ragionare su cosa fece funzionare due film eccelsi come quelli citati prima e cosa diede risalto e forza al lavoro già ottimo di un attore come Kevin Spacey: una sceneggiatura di ferro, senza sbavature né incoerenze. Cosa che purtroppo spesso manca a queste grandi produzioni americane, la cui bravura e tecnica sono fuori discussione, e certo in questo genere di pellicole sono elementi fondamentali, ma che cadono proprio su ciò che è più importante in un “giallo”, come già i grandi classici Hercule Poirot e Sherlock Holmes insegnavano quando ancora il cinema muoveva i suoi primi passi e la gente si emozionava una pagina dopo l’altra, una storia, si legga nel nostro caso sceneggiatura, il cui ingranaggio sia impeccabile nella sua solidità e credibilità. Questo è la sola vera cosa importante, il resto è un di più che non guasta, ma che non copre l’eventuale mancanza di fondamenta.
Si aggiungano personaggi stereotipati, un pessimo 50 Cent, nel ruolo, guarda caso, di rapper famoso quanto spacciatore, e la stessa scena di esterni montate due volte, con lo stesso passante con lo zaino che si fa notare mentre tranquillo, in mezzo alla solita folla, percorre una delle immense vie dove si muovono i nostri poliziotti, buoni ma dall’animo travagliato e non senza macchie, come vuole e pretende il tanto abusato luogo comune.
Un’occasione sprecata, ecco cosa si pensa mentre scorrono i titoli di coda, ed aspettative che più sono grandi più fanno male, quando vengono deluse.
T.

domenica 13 settembre 2009

Come Dio Comanda



Nel panorama della cinematografia italiana, un regista come Gabriele Salvatores è stato ed è sicuramente ancora un punto di riferimento, con pellicole intelligenti che non per questo si rifiutano di strizzare l’occhio alla lunga e proficua tradizione della “commedia all’italiana”, “Marrakech Express”, “Mediterraneo” o “Amnèsia” ne sono ottimi esempi, ed esperimenti in generi, troppo poco sfruttati dal cinema nostrano ma che hanno fatto la fortuna del cinema d’oltreoceano, come la fantascienza e la realtà virtuale di “Nirvana”. Quando un regista di questo calibro incrocia la strada di uno dei più apprezzati scrittori contemporanei italiani, Niccolò Ammaniti, le speranze di andare al cinema a vedere un buon lavoro a quattro mani sono lecite e condivisibili, e la curiosità di assistere ad un’interessante evoluzione da un lavoro letterario a uno cinematografico, discendente, quest’ultimo, dal primo ma non per questo fotocopia senza originalità, raggiunge vette difficilmente riscontrabili in Italia.



E se il risultato di questo incontro è il film “Io non ho paura”, dubbi non ne rimangono sull’utilità e la fertilità di questa collaborazione fra mondo di carta e mondo di celluloide. Alla loro seconda prova, con questo “Come Dio comanda”, però la conferma a pieni voti non c’è e qualche domanda, prima sopita, ora viene prepotentemente a galla. Sgombriamo prima il campo da malintesi, il film non è brutto né resterà deluso chi ama lo stile diretto e sboccato dello scrittore romano. Salvatores può già partire da personaggi complessi e cinematograficamente accattivanti e il suo merito sta nell’avere trovato attori versatili e visivamente potenti come Elio Germano, Filippo Timi e un insolito ma credibile Fabio De Luigi. Anche il giovane Alvaro Caleca è il ragazzo giusto nel film giusto, con questa faccia da ragazzo cresciuto in fretta, una scelta in stile “neorealismo”, se ha ancora senso questa parola ormai troppo abusata, o meglio, per non scomodare le leggende, alla Marco Risi e ai suoi primi film di denuncia sociale. Anche la decisione di dare largo spazio all’ambientazione, alla natura e al clima di un luogo, specchio dei suoi abitanti, paga egregiamente, rendendola protagonista anch’essa di questa triste e nera favola della provincia italiana del Nord. Purtroppo questi elementi a favore vengono sfruttati eccessivamente, tanto che il senso del limite viene messo alla prova e superato, calcando troppo la mano, con attori e scene troppo sopra le righe, alla ricerca dello shock emotivo ad ogni costo ma che ottiene solamente di raffreddare sempre più l’animo del pubblico pagante, che non riesce a farsi coinvolgere in questa vicenda di rabbia e amore estremi, rimanendo freddo tanto quanto il paesaggio e l’abbigliamento mostrati sullo schermo. Un buon film nella sostanza, ripeto, che non riesce però a sfruttare appieno una storia interessante e una certa realtà, certamente esistente, di degrado e speranza, che traspare comunque prepotentemente. Non un’involuzione né uno stop per Salvatores ma un altro tassello del suo mosaico artistico, solo forse non il più importante e significativo.
T.

giovedì 10 settembre 2009

The Mist - La Nebbia



Frank Darabont, dopo le ottime trasposizioni cinematografiche di "Le ali della libertà" e di "Il miglio verde", torna per la terza volta ad attingere dall’inesauribile fantasia di Stephen King con "The Mist", tratto da un suo racconto lungo, pubblicato nel 1985 ed intitolato appunto "La nebbia", e lo fa nuovamente in modo superbo.
Il regista, di origini ungheresi, paga immediatamente il tributo al grande scrittore del Maine (sono sicuro che la Castle Rock di tanti suoi racconti sia confinante con la Cabot Cove de "La Signora in Giallo" e con la Bridgton della nostra storia), trasformando il protagonista da pittore a disegnatore di locandine cinematografiche, intento, prima che si scateni l'inferno in terra, a finire di dipingere il pistolero - cavaliere Roland, protagonista della serie "La Torre Nera", sette romanzi in più di venti anni della carriera del prolifico scrittore. Ma in quella stessa inquadratura, sullo sfondo, si nota anche qualcosa d'altro, ovvero la locandina, già completata, del film "La cosa" di John Carpenter, e su questo particolare vale la pena soffermarsi un attimo. Perché se il remake di Carpenter era una denuncia, in anni ancora cupi di Guerra Fredda, sulla facilità con cui un gruppo di uomini poteva cadere in un clima di diffidenza e di sospetto reciproco, tanto da non distinguere più gli amici dai nemici, appena qualcosa di diverso arrivava a stravolgere la routine quotidiana, "The Mist", in questi anni dove le guerre fredde o calde non mancano di certo, si spinge oltre con il suo pessimismo infinito sull'animo umano e sulla fragilità dei legami sociali, quando un gruppo di persone, concittadini che si conoscono da sempre, apparentemente normali come tutti noi, si trova costretto a barricarsi in un supermercato mentre, fuori, una nebbia fitta e gonfia di mostri non sembra più dare possibilità di salvezza.
Una salvezza che è soprattutto interiore, dell'anima di ognuno di noi, che si scopre essere meschina ed egoista nel riconoscere negli altri solo una fonte di problemi o una possibilità di affermazione del proprio potere. In alcuni momenti del film si ha così l'impressione che le creature orribili, fuori dalla sottile vetrata, stiano solo a guardare, spettatori, come noi del resto, di un gioco al massacro e di una trasformazione sociale che porta delle donne e degli uomini, razionali e maturi nelle loro vite normali e senza scosse, a divenire veri e propri mostri, forse peggiori di quelli fuori, assetati di sangue e potere. La nebbia del sospetto e della paura, nei confronti del diverso e del vicino, porta solo ad una inestricabile confusione mentale, a false supposizioni e quindi a scelte sbagliate, questa è la triste e crudele morale del film, o meglio del suo regista. Come viene chiaramente mostrato nel finale, agghiacciante e così profondamente nero rispetto al pur minimo spiraglio di speranza che invece ci concedeva lo scrittore americano.
Tempi diversi, certo, ma non per questo migliori.
T.

domenica 6 settembre 2009

MYSTIC RIVER (2003)

Siamo nella Boston degli anni settanta,tre ragazzini(Sean,Jimmy e Dave) giocano ad hockey sulla strada quando vengono avvicinati da due uomini che si spacciano per poliziotti:con l'inganno rapiranno Dave per quattro lunghi giorni durante i quali abuseranno di lui.Un evento che segnerà l'esistenza dei tre amici per sempre.
Dopo venticinque anni si ritroveranno coinvolti per motivi diversi in un caso di omicidio.
Un grande Sean Penn(Jimmy),nei panni di un padre al quale hanno ucciso la figlia diciannovenne,riesce a trasmettere tutte le sfumature del dolore che è costretto ad affrontare.Kevin Bacon(Sean) è un detective di polizia turbato dalla fuga della moglie e dalla morte della figlia del suo amico d'infanzia.Tim Robbins(Dave) è un padre di famiglia ancora profondamente legato alle violenze subite da bambino,un uomo che cerca di vivere un'esistenza tranquilla.
Un thriller davvero azzeccato,incentrato molto sullo stato psicologico dei personaggi,ognuno con i suoi scheletri nell'armadio.
L'ennesimo grande film di Clint Eastwood,tratto dal romanzo La morte non dimentica di Dennis Lehane,arricchito da un ottimo cast che comprende anche Laurence Fishburne e Marcia Gay Harden.
Sicuramente da vedere e... perchè no, anche da rivedere.



"Ci siamo saliti tutti e tre su quell'auto"

G.