domenica 13 settembre 2009

Come Dio Comanda



Nel panorama della cinematografia italiana, un regista come Gabriele Salvatores è stato ed è sicuramente ancora un punto di riferimento, con pellicole intelligenti che non per questo si rifiutano di strizzare l’occhio alla lunga e proficua tradizione della “commedia all’italiana”, “Marrakech Express”, “Mediterraneo” o “Amnèsia” ne sono ottimi esempi, ed esperimenti in generi, troppo poco sfruttati dal cinema nostrano ma che hanno fatto la fortuna del cinema d’oltreoceano, come la fantascienza e la realtà virtuale di “Nirvana”. Quando un regista di questo calibro incrocia la strada di uno dei più apprezzati scrittori contemporanei italiani, Niccolò Ammaniti, le speranze di andare al cinema a vedere un buon lavoro a quattro mani sono lecite e condivisibili, e la curiosità di assistere ad un’interessante evoluzione da un lavoro letterario a uno cinematografico, discendente, quest’ultimo, dal primo ma non per questo fotocopia senza originalità, raggiunge vette difficilmente riscontrabili in Italia.



E se il risultato di questo incontro è il film “Io non ho paura”, dubbi non ne rimangono sull’utilità e la fertilità di questa collaborazione fra mondo di carta e mondo di celluloide. Alla loro seconda prova, con questo “Come Dio comanda”, però la conferma a pieni voti non c’è e qualche domanda, prima sopita, ora viene prepotentemente a galla. Sgombriamo prima il campo da malintesi, il film non è brutto né resterà deluso chi ama lo stile diretto e sboccato dello scrittore romano. Salvatores può già partire da personaggi complessi e cinematograficamente accattivanti e il suo merito sta nell’avere trovato attori versatili e visivamente potenti come Elio Germano, Filippo Timi e un insolito ma credibile Fabio De Luigi. Anche il giovane Alvaro Caleca è il ragazzo giusto nel film giusto, con questa faccia da ragazzo cresciuto in fretta, una scelta in stile “neorealismo”, se ha ancora senso questa parola ormai troppo abusata, o meglio, per non scomodare le leggende, alla Marco Risi e ai suoi primi film di denuncia sociale. Anche la decisione di dare largo spazio all’ambientazione, alla natura e al clima di un luogo, specchio dei suoi abitanti, paga egregiamente, rendendola protagonista anch’essa di questa triste e nera favola della provincia italiana del Nord. Purtroppo questi elementi a favore vengono sfruttati eccessivamente, tanto che il senso del limite viene messo alla prova e superato, calcando troppo la mano, con attori e scene troppo sopra le righe, alla ricerca dello shock emotivo ad ogni costo ma che ottiene solamente di raffreddare sempre più l’animo del pubblico pagante, che non riesce a farsi coinvolgere in questa vicenda di rabbia e amore estremi, rimanendo freddo tanto quanto il paesaggio e l’abbigliamento mostrati sullo schermo. Un buon film nella sostanza, ripeto, che non riesce però a sfruttare appieno una storia interessante e una certa realtà, certamente esistente, di degrado e speranza, che traspare comunque prepotentemente. Non un’involuzione né uno stop per Salvatores ma un altro tassello del suo mosaico artistico, solo forse non il più importante e significativo.
T.

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